Specchio rotto

Oggi cammino in ombre di cristallo:
sono vetri riflessi di un opaco destino.
Tombe di luce.
Mi vedo in trasparenze di memoria,
scorrono sottili ed accecano il senso.

Impossibile vedere attraverso cocci aguzzi
che rifrangono il chiarore
confondendo le emozioni.
Dettagli sovrapposti di vite parallele
confusi e mescolati in un riquadro solo.

Solitario e meschino calpesto i rumori,
ma ne produco altrettanti
che amplificano il suono.
E diventa rimbombo, che a tratti mi stordisce.

Ed io lento cerco di avanzare,
tentando come posso
di rimanere in piedi.
Ché se cadessi,
cadrei su vetri.

Che fitti e taglienti
mi taglierebbero le vene.

*****

Noi, nel tempo lento
fluttuando come topi,
rinchiusi in una ruota
da percorrere con cura
passi attenti, in fila indiana
evitando di inciampare.
Prudenti come agnelli
mandati ad arrostire,
o forti come negri, nei campi da coltivare:
esseri perfetti della grande illusione
esseri imperfetti,
incapaci di capire.

*****

S’accosta una luce. Piove. Tace
come l’ombra di un muto destino.
Brilla da lontano il quieto rossore,
la spegne la distanza:
è incerto, ora.
Cade l’acqua in terra, riflette il volto.
È uno schiaffo, strozza. Non si trattiene.
Nella notte scorre quel grido
di un sofferto dolore.
Scopre lento l’argentea pozzanghera:
un pianto oscuro che aggiunge
liquido al liquido. Nero al colore.
Scivola grigio al fiume, scrosciando si unisce.
Diventa marea, si scorda. Lì, muore.
Si spegne la luce, qui.
Piove.

*****

Vento, e sera. Lo schianto
smorzato di un’imposta mal chiusa.
Io, che come un pellegrino percorro la mia vetta ricerco
con clemenza il più insolito mistero: non porto doni,
solo errori. Ed è errando che cammino
le silenziose vie, dove incontro
ogni tanto qualche rara espressione:
gli uomini a difesa del taciturno non sapere.
Sono iridi che luccicano nel più profondo buio,
che squadrano il mio essere eremita sconosciuto.
Io quegli sguardi sopporto con cura.
Soppeso quelle facce e ne faccio esperienza:
viaggerò anche con loro nel mio viaggio lontano.
Chè anche io diventerò quell’esperienza cruda
squadrerò qualcun altro, solitario impostore.

*****

Il cielo notturno della città dei dolori
è un intreccio tessuto di gabbiani in volo,
di curvilinee rotte che si incontrano nei nembi di Nettuno,
che sfavillano nell’indaco scolorito come cerchi d’argento lucidato.
Risplendono come le corazze del lottatori feriti,
e da quel buco costruito dalla lama del nemico
rigettano il sangue che già raggrumato ha fatto la storia:
un liquame, rosso, che in sè vuole raccontare
i trucchi meglio riusciti delle loro battaglie antiche.
La sfera opaca e cristallina segue questi percorsi
alla ricerca di un sentiero da dipanare,
inconsapevolmente sicura di poter trovare, più in là di questo schema,
il secolare silenzio di ossa lontane.
Esse sono bianche scogliere compattate insieme dal peso degli anni.
Come quei gabbiani straziati viaggiarono da antiche mura, e su
quelle mura sazie posarono la propria felicità.
E in questo cielo notturno della città dei dolori non eressero altro
che la propria dimora.

*****

Requiem per un sogno
riuona dolente l’oscura canzone
una nota, poi un’altra, accostate in fila indiana
si abbuia in un istante la stanza
fuori.

Gracchia piangendo il muro
percorso dalle crepe che sono rotte sui mari
solcati dai vascelli di memorie complessate,
occhi o brandelli di desideri ciechi.

E il vento soffia i rintocchi di campana
trasportando nell’aria questa pesante condizione.
Mentre dentro si accascia, lento, il desiderio oscuro
e a rilento se ne muore ogni suo incerto colore.

*****

Lontano da te
c’è uno spazio triste ed assassino
dove vanno a riposare i treni e gli aeroplani.
Non si arriva a quello spazio
seguendo le consuete strade, nè vi si arriva
imparando a navigare.
Quello spazio è presente quando tu non lo sei,
nell’istante preciso in cui il mondo tramortito
su se stesso implode,
generando le lisce crepe tortuose
in cui si annida questa mia massacrante nostalgia.

*****

Il sonno non verrà
a rubarci la vita,
non scenderà su di noi
soffocando i respiri.

Rimarrà
sempre sveglia
una luce,
riflettendo sui muri
tenue ed ombrosa:
sulla pelle, e sul viso
a illuminare le notti,
a rischiarare le grida
di quando avremo terrore.

Non verrà
questo sonno
a disturbarci la quiete,
non verrà per costringerci
a respirare timore.

Nè verrà nei silenzi
dilaniati dal tempo,
per portarci agonìa
di insostenibile
oppressione.

*****

Il conto finale

Mentre ti consuma la vita scali le tue ombre
evitando le menzogne partorite in questi anni
ripeti a bassa voce “perdono… perdono…”
mani giunte sopra il petto e ginocchia sbucciate.
Crolli, cadendo, in un tonfo sordo
sotto il peso delle responsabilità
che hai tralasciato in questi anni;
in questo tempo hai sbagliato a non considerare
che anche per te sarebbe arrivato il conto finale.
L’attesa ti ha distrutto più di ogni altra cosa
intanto che tormentavi le tue unghie ormai spezzate.
E adesso che sanguinano e fanno male
è questo il momento che ne avresti più bisogno:
per scavare lentamente la tua tomba
e seppellirci per sempre il tuo dolore.

*****

Dove mai troverò la mia coscienza
dove
in un mondo distrutto
ricadente su se stesso, ucciso
dalla ribellione
e dai sassi,
dalle persone inebetite e prepotenti
dagli squali
dal gelo dell’Inverno tramortito
dall’arrogante pazzia che fanno le folle.

Non posso credere ancora
se ogni cosa in cui credo affonda
in un mare che inghiotte
bisognoso d’affetto,
che ridà ai suoi flutti
solo un corpo piangente,
disteso a pancia sotto, su di un fianco ripiegato,
che galleggia fino
a rive di cui nemmeno
conosco il nome.

Di cui nulla in effetti so se non
l’impervio picco sull’acqua
scosceso,
pucciato a bagno
sul fondale annerito e cupo,
mezzo sbiancato appena
da un preziosissimo candido sale.

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